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Ingiusta detenzione: il danno va risarcito alla persona nel suo complesso

Ingiusta detenzione: il danno va risarcito alla persona nel suo complesso

Ingiusta detenzione: l’indennizzo non deve ridursi al mero calcolo aritmetico se il richiedente subisce pregiudizi maggiori.

SE NELLA DOMANDA DI RIPARAZIONE PER L’INGIUSTA DETENZIONE IL RICHIEDENTE RAPPRESENTA E DOCUMENTA UN QUADRO COMPLESSIVO DIVERGENTE E PIÙ GRAVE RISPETTO ALLE NORMALI CONSEGUENZE DERIVANTI DALL’INCOLPEVOLE DETENZIONE SUBITA, ALLORA VA RICONOSCIUTO UN INDENNIZZO MAGGIORE E PIÙ CONGRUO RISPETTO A QUELLO DETERMINATO DAL MERO CALCOLO ARITMETICO. 

1. Il caso.

Con ordinanza del 3 febbraio 2020 la Corte di Appello di Firenze condannava il Ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento in favore dell’istante, un medico convenzionato e politico locale,  della somma di euro 17.804,41  a titolo di riparazione per l’ingiusta detenzione, per aver subito quest’ultimo prima la misura cautelare in carcere dal 12 ottobre 2005 al 31 ottobre 2005 e successivamente la misura degli arresti domiciliari fino al 21 febbraio 2006, in quanto indiziato dei reati di concussione ed abuso di ufficio, dai quali l’istante veniva assolto con formula "perché il fatto non sussiste”.
L’istante proponeva ricorso per Cassazione avverso tale ordinanza, lamentando il fatto che nell’ordinanza gli fosse stata riconosciuta una somma pari al mero calcolo aritmetico dei giorni patiti in custodia, senza tenere conto degli ulteriori danni patrimoniali e non patrimoniali subiti, quelli cioè attinenti alla sfera professionale, familiare e dello stato di salute, pur ampiamente documentati nell’istanza di riparazione.
Nel ricorso si assumeva che la Corte territoriale avesse erroneamente ed immotivatamente ricondotto i danni alla salute documentati dall’istante alle ingiuste accuse elevate a suo carico anziché, come dimostrato, alla privazione della libertà subita a causa della misura cautelare applicata. 
Si rilevava inoltre che il giudice della riparazione avesse scisso l’infondatezza dell’accusa dall’ingiusta detenzione subita, al fine del riconoscimento del danno patito, sia a livello psicofisico, che lavorativo nonché a livello personale e familiare, essendo invece i due aspetti intrinsecamente legati.
Si lamentava altresì che la Corte territoriale avesse ritenuto le conseguenze negative dell’ingiusta detenzione in parte ristorate dalla sentenza di assoluzione, senza tenere conto dei danni subiti dal ricorrente dal punto vista della carriera professionale (diminuzione del numero degli assistiti), economico (impossibilità dello stesso a fronteggiare i propri doveri economici nei confronti della famiglia ed alle scadenze dei mutui), della carriera politica (allontanamento dal partito di appartenenza e dimissioni dalla carica di Vicesindaco del Comune di Campo nell’Elba) ed infine familiare (separazione dalla compagna), senza contare il fatto che il discredito personale subito dal ricorrente risultava amplificato dalla circostanza che la vicenda si fosse svolta in una realtà di piccole dimensione, elemento completamente trascurato dalla Corte territoriale. 

2. La Suprema Corte sull’indennizzo da corrispondere nel caso in cui a subire l’ingiusta detenzione sia un professionista o un politico.

La Corte Suprema di Cassazione Sezione IV Penale con la sentenza n. 32069 depositata il 25 agosto 2021 ha accolto il ricorso proposto ribadendo e chiarendo alcuni principi cardine in tema di indennizzo dovuto per il ristoro da ingiusta detenzione, con particolare riferimento al caso in cui a patirla sia stato un professionista o un politico, come nel caso di specie.
In primo luogo ha ribadito che pur trattandosi di un ristoro avente natura indennitaria e non risarcitoria, sono consentiti aggiustamenti alla quantificazione aritmetica allorquando emergano profili ulteriori rispetto al "fisiologico” danno da privazione della libertà, tali per cui la lesione si palesi divergente e più grave rispetto alle normali conseguenze derivanti dall’ingiusta detenzione.
Con particolare riferimento alle conseguenze personali, relative all’attività lavorativa ed al minore reddito derivato dalla privazione della libertà ed alla compromissione professionale, la Suprema Corte ha rilevato che "un discostamento dal parametro aritmetico si giustifica allorquando la situazione creatasi a seguito dell’ingiusta detenzione sia tale da implicare il superamento del criterio di medietà, ciò verificandosi in presenza di un impoverimento tale da modificare uno stile complessivo di vita o lo scioglimento irrecuperabile di rapporti personali o ancora l’induzione di grave malattia, rientrando tutte le altre ipotesi nel concetto di fisiologia dell’incolpevole privazione della libertà”.
Dopo aver premesso ciò la Corte Suprema ha altresì affermato che "qualora la parte istante alleghi la sussistenza di danni derivanti da una grave compromissione dell’attività professionale e familiare e da particolari situazioni di pubblica esposizione, dovuti al clamore delle accuse e dell’applicazione della misura custodiale, la motivazione che si limita a determinare il quantum sulla base del criterio meramente aritmetico non può risolversi in una petizione di principio, peraltro basata sul richiamo e la condivisione della giurisprudenza di legittimità di segno completamente diverso”.
Sulla base di tali premesse, ha ritenuto pertanto il provvedimento impugnato viziato dal punto di vista motivazionale nella parte in cui ha reputato che la somma aritmeticamente calcolata fosse idonea a compensare tutti gli effetti derivanti dall’ingiusta detenzione subita dall’istante sulla base di due alquanto generiche considerazioni, ossia che la lesione degli interessi economici e personali deriverebbe dalle accuse e non dalla privazione della libertà e che la reputazione del ricorrente sarebbe stata riqualificata dall’assoluzione, senza però precisare su quali elementi si fonderebbero simili considerazioni.
La Suprema Corte, al contrario, sottolinea come nella domanda di riparazione sia stato fatto valere un quadro complessivo completamente differente e più grave rispetto a quelle che possono reputarsi le normali conseguenze derivanti dall’ingiusta detenzione, ossia tutta una serie di pregiudizi di carattere economico, professionale e familiare nonché legati alla carriera politica dell’istante, tutti debitamente documentati.
In effetti l’istante, un medico convenzionato e politico locale, lamentava una consistente perdita del numero degli assistiti, l’impossibilità di attendere ad obblighi assunti verso terzi nonché la compromissione della propria carriera politica, all’interno peraltro di una realtà di piccole dimensioni.
Rispetto a tali temi la Corte territoriale ha omesso di esprimersi ed è incorsa pertanto in un insanabile vizio motivazionale, che ha condotto la Suprema Corte ad annullare l’ordinanza con rinvio per nuovo giudizio.
   
3. Conclusioni: la privazione della libertà causa danni alla "persona” nella sua complessità.

In questa importante pronuncia la Suprema Corte, affrontando il problema della quantificazione dell’indennizzo riconosciuto per l’ingiusta detenzione, e nello specifico nei confronti di un professionista e politico, chiarisce ancora una volta che il parametro aritmetico non è sufficiente a determinare il quantum nel caso in cui oltre al "fisiologico” danno da privazione della libertà emergano danni ulteriori e più gravi patiti dal richiedente.
Pertanto, quando ricorrono pregiudizi di natura economica, professionale, familiare o attinenti alla carriera politica che eccedono le normali conseguenze derivanti dall’ingiusta detenzione, il richiedente avrà diritto ad un indennizzo più alto e dunque congruo rispetto ai danni subiti.
Quindi, il valore della persona umana, il bene supremo della libertà devono essere tutelati in maniera completa.
La  privazione della libertà provoca non solo danni da calcolarsi in maniera aritmetica,  ma anche e soprattutto  danni  al fisico, alla psiche, al lavoro, alla immagine, alla onorabilità, alla socialità dell’essere umano, ristretto ingiustamente ed esposto alla gogna pubblica delle  manette e dell’arresto e della custodia cautelare.
Risarcire tutto il danno provocato, in ogni suo aspetto, significa rimediare, comunque in parte, al trauma della perdita della libertà. L’auspico è che la Cassazione inauguri con questa sentenza un nuovo corso che riassegni il giusto valore alla persona sottoposta a privazione ingiusta del suo diritto fondamentale.

Avv. Rosanna De Canio

Articolo scritto da: Avv Rosanna De Canio il 11/09/2021
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